Papa Leone XIV: il primo discorso ai cardinali

Questa mattina Leone XIV ha parlato ai cardinali che lo hanno eletto, credo che la differenza di pensiero con Francesco sia molto accentuata (per fortuna).

“Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere. Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco.”

Si apre un nuovo pontificato carico di speranze, il mondo intero guarda al Santo Padre con affetto!

Silenzio su Gaza, in Italia attacco alle fonti e inaccettabile spionaggio ai giornalisti                                                                           

L’intervento del Presidente nazionale dell’Ordine su “Collettiva” il giornale online della CGIL:

La Giornata mondiale della libertà di stampa è stata istituita dall’ONU per ricordare la Dichiarazione di Windhoek (Namibia) del 3 maggio 1991, un documento in cui si afferma che la difesa della libertà di stampa, del pluralismo e dell’indipendenza dei media sono elementi fondamentali per la difesa della democrazia e il rispetto dei diritti umani. Principi che, nel mondo occidentale, sembravano scontati ed acquisiti.
Ad oltre trent’anni di distanza dall’istituzione della Giornata mondiale, invece, ci ritroviamo a dover ribadire con forza la necessità di difendere quanto sancito dall’ONU e scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione repubblicana, nei documenti fondamentali dell’Unione Europea e di altri paesi avanzati.
Negli Stati Uniti, per citare un esempio, abbiamo assistito alla cacciata dei giornalisti dell’Associated press dalle conferenze stampa della Casa Bianca, il luogo più rilevante al mondo per i media. È stato necessario chiedere l’intervento di un giudice per ottenerne la riammissione.
Le due terribili guerre di Ucraina e Gaza, che si sommano ai tanti conflitti dimenticati come quelli del Sudan e del centro Africa, hanno causato il più alto numero di vittime fra giornalisti e fotoreporter. A questo va aggiunto l’inaccettabile blocco dell’accesso da parte della stampa internazionale su Gaza, che impedisce un racconto completo dei massacri e delle tragedie che si stanno consumando, soprattutto ai danni di donne e bambini. Per non parlare degli ingiustificati e inaccettabili attacchi contro quei giornalisti e quei programmi di approfondimento che provano a raccontare la tragedia di Gaza, la cui portata non può essere ridotta ad una tabellina con il numero quotidiano di morti. Al contrario di quanto accade in Ucraina dove, seppur con le pesanti limitazioni di una situazione di guerra, riusciamo a sapere le storie e i racconti della sofferenza del conflitto, su Gaza è calato un velo di silenzio nonostante gli appelli dell’ONU.
Non va meglio a casa nostra. Possiamo dire che abbiamo alle spalle un “annus horribilis”. Querele temerarie e azioni giudiziarie intimidatorie contro i giornalisti si sono susseguite da parte di esponenti del mondo politico, imprenditoriale e istituzionale; mentre l’unica prospettiva di riforma del reato di diffamazione è quella che prevede il pesante aumento delle sanzioni pecuniarie, in aggiunta a un’altra serie di norme penalizzanti per i giornalisti come quella che imporrebbe di svolgere il processo nel luogo dove è stata sporta la querela.
È stata data un’ulteriore stretta alle fonti giudiziarie con il provvedimento che vieta la pubblicazione, anche solo di stralci, delle ordinanze di custodia cautelare. Nel frattempo, si susseguono gli attacchi contro il giornalismo di inchiesta e i tentativi di scoprire le fonti giornalistiche, con buona pace del segreto professionale.
Abbiamo appena appreso che Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, non era il solo giornalista ad essere stato oggetto di intercettazioni con il sofisticato spyware militare fornito dalla società Paragon; insieme a numerosi attivisti dei diritti umani. Con lui un altro collega, sempre di Fanpage ha subito lo stesso trattamento. Un’attività esplicitamente vietata sia dalle norme europee che dalla legge italiana Ma quanti sono i giornalisti spiati in Italia? Chi lo ha deciso in spregio a tutte le leggi e ai principi della democrazia e perché? Troviamo inspiegabile l’apposizione del segreto di Stato sulla vicenda e chiediamo risposte a fronte di una vicenda gravissima e inaccettabile.
Tutto questo costituisce un peso sempre più grave sulla libertà di stampa e l’indipendenza del lavoro giornalistico. Limitazioni che si intrecciano con una crescente situazione di precarietà e incertezza lavorativa di tante colleghe e colleghi, fattori che incidono moltissimo sull’autonomia dei giornalisti.
Stiamo attraversando una fase delicata per la nostra democrazia, dobbiamo esserne ben consapevoli e non avere incertezze o timidezze nel difendere il ruolo costituzionale che svolge l’informazione professionale. Un bene comune che non è un privilegio di una corporazione, ma rappresenta il diritto dei cittadini ad una informazione libera, corretta e plurale. Un diritto da difendere insieme.

Carlo Bartoli, presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti

L’ora più buia dell’Europa che si riarma e minaccia

di Pino Arlacchi

Ci dibattiamo nella melma di un’Europa ricaduta nell’inciviltà e nella barbarie, dove sulla bocca delle sue élite, dopo 80 anni di pace, ricompaiono parole di guerra e di aggressione. Bruxelles, Parigi, Londra e Berlino sembrano immemori della lezione di due guerre mondiali che hanno portato il continente sull’orlo dell’autodistruzione. La leadership europea appare rinchiusa dentro un delirio antirusso del tutto gratuito, non condiviso dagli Stati Uniti e osservato con sconcerto dal resto del pianeta, e che non cesserà prima di aver fatto ingenti danni. In questa ora buia è importante riflettere sugli strumenti di contrasto, sulle forze della pace che sono comunque in campo. A cominciare dal diritto internazionale che Von der Leyen e soci stanno calpestando impunemente. Il piano europeo di riarmo, accompagnato da una retorica apocalittica che dipinge la Russia nei termini di una minaccia esistenziale, rappresenta una palese violazione dei principi fondamentali che governano la comunità internazionale. L’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite non lascia spazio a interpretazioni ambigue: “I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. Questa norma imperativa del diritto globale viene oggi oltraggiata dalle istituzioni europee con una disinvoltura che dovrebbe allarmare ogni cittadino consapevole. La Russia post-comunista è rientrata da 36 anni nel palcoscenico della politica estera con un programma di tranquilla cooperazione multilaterale. Ha dimostrato ampiamente il suo desiderio di amicizia e di collaborazione con l’Europa occidentale e ha normalizzato i suoi rapporti con gli Stati Uniti fino in pratica a pochi anni fa. Ha aderito agli Accordi di Helsinki, ha rispettato il Trattato di non proliferazione nucleare, ha concluso numerosi patti sulla limitazione degli armamenti. Non si è trattato di gesti simbolici. La Russia di Eltsin e Putin ha smantellato l’Armata rossa, riducendo e non aumentando le spese militari fino allo scoppio della guerra in Ucraina. Qual è stata la risposta occidentale a questi sforzi? Un progressivo accerchiamento strategico, l’espansione della Nato – un relitto della guerra fredda, un morto che ha camminato fino ai confini russi – e ora, come culmine di questa strategia, un programma di riarmo giustificato dalla narrazione paranoide di una Russia determinata a invadere l’Europa occidentale. Un elemento rivelatore della natura aggressiva di questo piano è la sua stessa esistenza in parallelo con la Nato. Se la minaccia russa fosse reale e l’intento del piano puramente difensivo, perché non utilizzare i meccanismi già esistenti dell’Alleanza atlantica? La maggior parte degli Stati membri dell’Ue appartiene già alla Nato, la cui ragion d’essere è precisamente la difesa collettiva, sancita dall’articolo 5 del suo Trattato istitutivo. Questa ridondanza degli strumenti militari tradisce l’intenzione non di proteggere ma di proiettare potenza, non di difendersi da minacce tangibili ma di aggredire. Un arsenale difensivo non necessita di una stampella aggiuntiva quando esso esiste proprio per questo scopo. La verità è che questo piano è una svolta militarista mascherata da prudenza strategica. Questa spinta guerrafondaia non è solo platealmente infondata, ma costituisce essa stessa una minaccia all’uso della forza. Presentare un Paese come aggressore incombente, in assenza di prove, serve solo a provocare, ad alimentare una spirale di tensione che potrebbe sfuggire al controllo delle parti. E trasformarsi in una profezia che si auto-adempie, dove il nemico immaginario è costretto a trasformarsi in nemico reale. Che in questo caso coincide, guarda un po’, con la maggiore potenza atomica del pianeta.

Il concetto di “difesa preventiva” che serpeggia nei documenti strategici europei è particolarmente insidioso. Il diritto internazionale riconosce la legittima difesa solo di fronte a minacce concrete e imminenti, non sulla base di ipotetici scenari futuri o peggio, di pregiudizi fasulli. Quando un’entità politica come l’Unione europea inizia a giustificare il proprio riarmo con la necessità di prevenire attacchi di cui non esiste alcuna evidenza, non sta facendo altro che minacciare l’uso della forza, violando flagrantemente l’articolo 2(4) della Carta Onu. Ci sono diverse strade che possono essere seguite per punire questa illegalità. C’è la possibilità di un ricorso alla Corte europea di giustizia da parte di una persona fisica o giuridica o di un tribunale nazionale Ue che denunci la violazione dell’articolo 21 del trattato dell’Unione europea, che stabilisce che l’azione internazionale dell’Unione deve rispettare la Carta delle Nazioni Unite. C’è la possibilità che la Russia denunci i singoli Stati dell’Ue (che, come tale, non è nell’Onu) alla massima istituzione del diritto mondiale che è la Corte internazionale di giustizia, organo Onu custode dei trattati interstatali e della stessa Carta. Ma c’è anche la possibilità che il Consiglio di sicurezza o, meglio, l’Assemblea generale dell’Onu richieda alla Corte internazionale di giustizia un parere sul tema. Il parere non sarebbe vincolante, ma il suo contenuto – se conforme allo spirito e alla lettera della Carta – avrebbe un forte impatto sulla pretesa dell’Ue di detenere la leadership del rispetto del diritto internazionale. Sarebbe un monito verso l’abbandono della retorica bellicista e verso il ritorno ai principi di fondo, pacifici e progressivi, dell’integrazione europea.

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Il Milan stende l’Inter con un super Jovic ed è in finale di Coppa Italia

Rossoneri vittoriosi 3-0 sui nerazzurri grazie anche a una doppietta del serbo

Jimenez si congratula a modo suo con il compagno dopo il suo primo gol

È il Milan la prima finalista della Coppa Italia 2024-25. Dopo l’1-1 dell’andata, nel ritorno del derby di semifinale con l’Inter i rossoneri si sono imposti 3-0 grazie anche alla doppietta di un super Jovic e hanno superato il turno con merito, confermando la loro supremazia stagionale nei confronti dei nerazzurri, già battuti nella finale della Supercoppa e ai quali hanno concesso un solo punto nelle due sfide di campionato. Nell’ultimo atto, mercoledì 14 maggio a Roma, Maignan e compagni affronteranno con ogni probabilità il Bologna, che domani sera al Dall’Ara ripartirà dal 3-0 ottenuto in casa dell’Empoli.

Reduce dalla bruciante sconfitta all’ultimo secondo proprio con il Bologna, costata il primato in solitaria in Serie A, l’Inter è partita forte e ha prodotto in particolare un’occasionissima sprecata da Lautaro al 33’. Chi sbaglia paga però, come si suol dire, e in effetti nel giro di 3’ il Milan è passato in vantaggio grazie a un colpo di testa di Jovic. Il secondo gol del serbo in apertura di ripresa ha scatenato la reazione di mister Inzaghi, che al 53’ ha effettuato ben quattro sostituzioni per provare a dare una scossa alla sua squadra. La reazione c’è stata, ma i campioni d’Italia non sono riusciti a trovare la via del gol e il sogno triplete è definitivamente sfumato dopo il 3-0 di Reijnders all’85’.

FONTE

Chi sarà il prossimo Papa? Ecco gli scenari geopolitici in gioco

Filippo Sardella Presidente at Istituto Analisi Relazioni Internazionali

Oggi, mercoledì 23 aprile, in un momento di grande solennità e riflessione, mentre si celebra il funerale del Papa, è inevitabile volgere lo sguardo al futuro. Con il collegio cardinalizio riunito per rendere omaggio al defunto pontefice, si apre anche una stagione di attesa e discussione sui possibili successori al soglio di Pietro. Ma chi sono i papabili? E, cosa ancora più cruciale, quali implicazioni geopolitiche porterebbero le loro eventuali elezioni? In un contesto in cui la Chiesa Cattolica riveste ancora un ruolo centrale nei delicati equilibri globali, è fondamentale analizzare come ogni candidato potrebbe influenzare le relazioni internazionali, il dialogo interreligioso, e le priorità politiche e sociali del Vaticano nel mondo di oggi.
Luis Antonio Tagle (Filippine)

Pro: La scelta di Tagle rifletterebbe l’importanza strategica dell’Asia nella geopolitica contemporanea. La sua elezione potrebbe consolidare il ruolo della Chiesa nelle periferie globali, soprattutto in un contesto asiatico dove la popolazione cattolica è in crescita. Inoltre, il rafforzamento di un ponte tra Occidente e Asia consentirebbe di bilanciare l’influenza delle potenze regionali (Cina e India) e rafforzare la presenza cattolica in territori ancora in evoluzione religiosa e politica.
Contro: La sua figura progressista e fortemente francescana potrebbe alienare le fazioni più conservatrici, rendendo difficile un consenso globale all’interno della Chiesa. Inoltre, potrebbe incontrare resistenze da parte di quei Paesi che vedrebbero una leadership papale “troppo asiatica” come uno sbilanciamento geopolitico rispetto alla tradizionale centralità europea della Chiesa.
Matteo Zuppi (Italia)

Pro: Un pontefice italiano come Zuppi riporterebbe il papato alla tradizione storica dell’Italia, mantenendo il Vaticano vicino ai centri nevralgici dell’Europa e alla sede storica della diplomazia vaticana. La sua esperienza diplomatica, inclusa la mediazione in Ucraina, potrebbe rafforzare il ruolo della Chiesa come attore geopolitico nei conflitti internazionali e nelle relazioni euro-atlantiche.
Contro: La scelta di un italiano potrebbe essere vista come un passo indietro rispetto al pontificato globale di Francesco, minando la percezione della Chiesa come istituzione universale. Inoltre, il suo approccio progressista moderato potrebbe non soddisfare né i conservatori né i riformisti più radicali, riducendo la sua capacità di creare una forte coalizione geopolitica all’interno del collegio cardinalizio.

Peter Erdő (Ungheria)

Pro: Un papa ungherese segnerebbe un passo storico per l’Europa orientale, rafforzando il peso geopolitico di questa regione nella Chiesa cattolica. La sua posizione conservatrice e dottrinale più rigida potrebbe attrarre quei cardinali e fedeli che cercano una risposta chiara alla crescente secolarizzazione in Europa e alle sfide poste dalle migrazioni di massa.
Contro: L’Est Europa non ha ancora una forza numerica sufficiente nel collegio cardinalizio, il che potrebbe rendere la sua elezione difficile. Inoltre, la sua linea conservatrice rischia di alienare i progressisti del Sud del mondo, compromettendo l’unità geopolitica globale della Chiesa.

Jean-Claude Hollerich (Lussemburgo)

Pro: La sua visione progressista e l’apertura verso tematiche sociali e ambientali potrebbero rafforzare il ruolo della Chiesa come leader morale globale in questioni transnazionali, quali il cambiamento climatico e le disuguaglianze economiche. La sua vicinanza a Francesco garantirebbe continuità geopolitica nelle relazioni internazionali e nelle iniziative globali.
Contro: Essendo originario di un piccolo Stato europeo, potrebbe mancare del peso simbolico e geopolitico che un candidato proveniente da una grande nazione o da una regione emergente potrebbe offrire. Inoltre, alcuni cardinali di Africa e Asia potrebbero percepirlo come troppo allineato all’agenda liberale occidentale, riducendo la sua capacità di rappresentare la Chiesa universale.

Wilton Gregory (USA)

Pro: Un papa afroamericano rappresenterebbe una scelta epocale, evidenziando il ruolo crescente dell’Africa e della diaspora africana nel cattolicesimo globale. La sua elezione potrebbe migliorare le relazioni della Chiesa con gli Stati Uniti, rafforzando al contempo il suo impegno per la giustizia sociale e la lotta contro la discriminazione.
Contro: Gli USA sono una nazione polarizzata, e la sua elezione potrebbe essere vista come una mossa geopoliticamente divisiva, allontanando alcune fazioni conservatrici globali. Inoltre, la scelta di un papa americano potrebbe essere percepita come uno sbilanciamento verso l’Occidente, indebolendo il consenso nei continenti emergenti.

Christoph Schönborn (Austria)

Pro: La sua lunga esperienza e il suo equilibrio tra tradizione e modernità potrebbero favorire una leadership stabile e diplomatica. La scelta di un papa europeo di lungo corso rafforzerebbe la continuità istituzionale della Chiesa.
Contro: L’età e il momento storico rendono la sua candidatura meno probabile, mentre un altro papa europeo potrebbe essere percepito come una mancanza di apertura verso il Sud del mondo, limitando l’influenza geopolitica della Chiesa nelle regioni in crescita.

Fridolin Ambongo Besungu (RDC)

Pro: Un papa africano invierebbe un segnale forte sull’importanza dell’Africa, continente con una crescita cattolica esplosiva. La sua voce critica verso il colonialismo e l’economia globale potrebbe dare alla Chiesa un profilo più forte nei dibattiti geopolitici globali, evidenziando questioni di giustizia sociale e disuguaglianze economiche.
Contro: Senza un forte sostegno dai cardinali europei e sudamericani, potrebbe risultare difficile costruire una coalizione vincente. Inoltre, alcune sue posizioni potrebbero essere considerate troppo distanti dalle tradizioni dottrinali europee, complicando la sua accettazione a livello universale.

Odilo Pedro Scherer (Brasile)

Pro: La sua elezione rafforzerebbe il legame con il continente latinoamericano, simbolo della più grande popolazione cattolica al mondo.
Contro: Nonostante la sua esperienza e vicinanza a Roma, manca il carisma necessario per galvanizzare il collegio cardinalizio. La sua candidatura potrebbe apparire troppo conservatrice per i progressisti e non abbastanza rigida per i conservatori, riducendo il suo appeal geopolitico.

Se guardiamo questi candidati dal punto di vista delle relazioni internazionali vaticane, possiamo riflettere su come ognuno di loro potrebbe influenzare il ruolo geopolitico del Vaticano nel mondo:
Luis Antonio Tagle (Filippine)
La sua elezione sposterebbe il baricentro della Chiesa verso l’Asia, un continente in rapida crescita e sempre più rilevante nello scacchiere globale. Tagle potrebbe rafforzare le relazioni con le nazioni asiatiche emergenti, come l’India e i paesi dell’ASEAN, contrastando indirettamente l’influenza di altre potenze religiose e culturali (ad esempio, il buddismo in Thailandia o il confucianesimo in Cina). La sua vicinanza alle periferie e ai poveri darebbe al Vaticano una posizione più attiva nei forum internazionali dedicati allo sviluppo sostenibile, al cambiamento climatico e alla giustizia economica, rendendo la Chiesa un interlocutore privilegiato nel dialogo Nord-Sud.
Matteo Zuppi (Italia)
Zuppi, con la sua solida rete diplomatica, soprattutto in Europa, potrebbe rafforzare il ruolo del Vaticano come mediatore nei conflitti internazionali. La sua esperienza con la comunità di Sant’Egidio lo rende particolarmente adatto a condurre iniziative di pace, facilitando negoziati e dialoghi in aree di crisi come l’Ucraina e il Medio Oriente. Inoltre, un papa italiano potrebbe rilanciare il tradizionale ruolo europeo della Chiesa, pur mantenendo un’apertura globale. Questo aiuterebbe il Vaticano a giocare un ruolo centrale nella politica internazionale dell’Unione Europea, facendone una voce morale capace di influenzare politiche di accoglienza, cooperazione internazionale e sostenibilità.
Peter Erdő (Ungheria)
Erdő rappresenterebbe un ponte tra l’Europa occidentale e orientale, consolidando l’influenza della Chiesa cattolica in un’area in cui il cristianesimo ortodosso e altre religioni hanno una presenza storica significativa. La sua elezione potrebbe ridurre la percezione di marginalità dell’Europa orientale all’interno del Vaticano, favorendo un dialogo più equilibrato con le nazioni dell’ex blocco sovietico. In ambito globale, Erdő potrebbe cercare di recuperare terreno su temi culturali e dottrinali, affrontando questioni legate alla secolarizzazione e proponendo la Chiesa come custode delle tradizioni europee. Tuttavia, la sua inclinazione conservatrice potrebbe limitare l’apertura verso i Paesi del Sud del mondo, rendendo il Vaticano meno rilevante nei processi di dialogo globale.
Jean-Claude Hollerich (Lussemburgo)
Hollerich, pur provenendo da un piccolo paese europeo, ha una visione globale che si allinea con le sfide internazionali contemporanee. La sua apertura progressista potrebbe posizionare il Vaticano come leader su temi transnazionali come il cambiamento climatico, i diritti umani e le disuguaglianze economiche. Questo approccio gli consentirebbe di rafforzare le relazioni con organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, rendendo la Chiesa una guida morale nelle discussioni globali. Tuttavia, la sua provenienza europea potrebbe limitarne l’appeal nei continenti emergenti, riducendo il potenziale di un Vaticano più universalmente rappresentativo.
Wilton Gregory (USA)
Gregory rappresenterebbe un’apertura simbolica epocale, proiettando un’immagine di Chiesa moderna e inclusiva. Come primo papa afroamericano, rafforzerebbe le relazioni tra il Vaticano e la diaspora africana, così come con i Paesi africani. Negli Stati Uniti, potrebbe favorire un ruolo di guida morale in un contesto politico e sociale molto polarizzato, rilanciando la rilevanza della Chiesa cattolica americana come interlocutrice nei dialoghi su diritti civili, giustizia razziale e immigrazione. La sua elezione potrebbe anche rafforzare le relazioni con l’America Latina, consolidando un asse nord-sud che sarebbe fondamentale per la geopolitica della Chiesa.
Christoph Schönborn (Austria)
Schönborn, con la sua formazione teologica e il suo centrismo, potrebbe diventare un punto di equilibrio tra le diverse anime della Chiesa. Sebbene la sua età e il contesto attuale non lo rendano un candidato con alte probabilità, la sua elezione potrebbe enfatizzare il ruolo del Vaticano come mediatore nei dibattiti culturali europei. Inoltre, la sua esperienza potrebbe aiutare la Chiesa a dialogare con altre tradizioni cristiane, specialmente ortodosse, rafforzando un’alleanza pan-cristiana in contesti geopolitici difficili, come il Medio Oriente e l’Est Europa.
Fridolin Ambongo Besungu (RDC)
Ambongo porterebbe l’Africa al centro del palcoscenico globale del Vaticano. La sua elezione rifletterebbe il peso crescente del cattolicesimo africano e aiuterebbe a rafforzare le relazioni della Chiesa con i Paesi in via di sviluppo, specialmente in un continente dove la popolazione cattolica è in rapida crescita. Con lui, il Vaticano potrebbe diventare una voce più forte contro il neocolonialismo economico, a favore della giustizia globale e della redistribuzione delle risorse. Tuttavia, per ottenere un consenso più ampio, sarebbe necessario un sostegno significativo dalle fazioni europee e sudamericane.
Odilo Pedro Scherer (Brasile)
La sua elezione rappresenterebbe una scelta più tradizionale per l’America Latina, il che consoliderebbe il ruolo di quella regione come cuore demografico del cattolicesimo mondiale. Scherer potrebbe guidare il Vaticano in un dialogo più profondo con i governi latinoamericani, affrontando questioni come le disuguaglianze sociali, la criminalità e le migrazioni. Tuttavia, la mancanza di carisma e l’assenza di un forte profilo internazionale potrebbero rendere difficile l’espansione dell’influenza geopolitica del Vaticano oltre i confini regionali.
FONTE

I MIGLIORI LIBRI DELLA SETTIMANA

In questa meditazione ellittica sulla natura della lettura, Szendy traccia un collegamento tra la lettura ad alta voce di Fedro a Socrate, il regime di lettura del “Leviatano” di Hobbes e gli audiolibri. Sostiene che la lettura solitaria e silenziosa, divenuta la norma, sia “un’interiorizzazione della lettura ad alta voce che ha prevalso” per secoli. “Quando leggo in silenzio”, scrive, “ascolto me stesso mentre leggo”. Molto qui è teorico, ma l’obiettivo finale di Szendy è quello di indicare una nuova “politica della lettura”, che dia potere al “lettore”, o “colui per cui si legge”, nel contesto della proliferazione di dispositivi e tecniche digitali che stanno “sconvolgendo la nostra esperienza di lettori”.

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Annie, la narratrice di questo romanzo travolgente, ambientato in un solo giorno, è incinta di nove mesi e si trova in un negozio IKEA di Portland quando il “Really Big One” si abbatte sul Pacifico nord-occidentale. Dopo che il terremoto si è placato, Annie, rimasta senza telefono, soldi o macchina, inizia a camminare attraverso ciò che resta della città. Mentre attraversa asfalto rovente e cumuli di macerie, la sua mente oscilla tra la situazione attuale e un passato non troppo lontano: il fidanzamento, i corsi di preparazione al parto e i litigi con il marito, che non riesce a raggiungere. “Questo non è un film di Indiana Jones in cui tutti sopravviveranno”, dice al suo bambino non ancora nato. “Tuo padre è perduto per noi ora… e se non torno a casa, anche tu sarai perduto per me”.

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Torna la dicitura “genitore 1” e “genitore 2” nella carta d’identità dei figli: i parassiti della Cassazione respingono il ricorso presentato dal Governo. E’ ritenuto discriminatorio e irragionevole scrivere ‘padre’ e ‘madre’

La Corte di Cassazione ha ha respinto il ricorso del Ministero dell’Interno contro la decisione della Corte d’Appello di Roma nel febbraio 2024 di disapplicare il decreto ministeriale del 2019 dell’allora Ministro degli Interni Matteo Salvini con cui si eliminava la dicitura ‘genitore’ per tornare ad utilizzare al suo posto quelle di ‘padre’ e ‘madre’ nei documenti dei figli.

La decisione della Cassazione: “No a ‘madre’ e ‘padre’ nei documenti dei figli”, torna la dicitura “genitori”

La Corte di Cassazione con la sentenza 9216/2025 ha confermato il diritto di un minore, figlio di due donne, ad “ottenere una carta d’identità rappresentativa della sua peculiare situazione familiare“, che riporti in questo caso la dicitura ‘genitori‘ al posto di ‘padre‘ e ‘madre‘. Con la decisione della Corte, è stato respinto il ricorso presentato da Piantedosi

Secondo il decreto del ministero dell’Interno, allora a guida di Matteo Salvini, era possibile “indicare in maniera appropriata solo una delle due madri”, mentre la relazione familiare con l’altra donna doveva essere indicata “secondo una modalità (‘padre’) non consona al suo genere“. Il decreto Salvini, volto a “difendere la famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna“, andava a modificare una risoluzione del governo Renzi del 2015 che aveva sostituito le indicazioni tradizionali sulla carta di identità con la parola ‘genitori’. Nel febbraio 2024 l’attuale Ministero degli Interni aveva fatto appunto ricorso  contro la decisione del Tribunale di Roma che annullava, in questo modo, l’efficacia del decreto Salvini. Tuttavia la Cassazione ha riconosciuto come legittima la disapplicazione del decreto Salvini sulla base dell’assunto che “la dicitura ‘padre’/ ‘madre’ sulla carta d’identità elettronica è irragionevole e discriminatoria“.

fonte

Dazi europei sui prodotti americani: dobbiamo aspettarci aumenti su Coca cola, Tesla e iPhone?

Il presidente Trump ha detto che “l’Unione Europea è nata per fregare gli Stati Uniti” e per questo ha applicato dazi del 20% sui prodotti provenienti dall’Europa. La Commissione Europea ha fatto sapere che l’Europa non starà a guardare e “reagirà fermamente e immediatamente”, lasciando intendere la possibilità di “contro-dazi” sui prodotti importati dagli Stati Uniti. Dobbiamo aspettarci un rialzo dei prezzi dei prodotti d’importazione? Ne parliamo con il Professor Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di strategia aziendale all’Università Bocconi di Milano.


Il consumatore Italiano rischia di pagare di più la Coca Cola o il servizio di Amazon

«Se il tema è la licenza ad esempio di Amazon web Services, in realtà noi la compriamo da un’azienda irlandese, e così come la Coca Cola, da un imbottigliatore europeo. La verità è che i dazi non hanno tanto un effetto direttamente sulla singola merce, ma hanno un effetto sull’inflazione sul livello dei prezzi, perché alzano il costo dei fattori produttiVI

Come impattano allora i dazi sul consumatore?

«Molte delle tecnologie americane sono utilizzate dalle imprese nella catena del valore. I dazi si riverberano a valle semmai come costi di produzione. Quindi più che il prezzo di un singolo bene o di una singola categoria merceologica, i dazi hanno un effetto deprimente sulla attività economica. Sono sabbia negli ingranaggi dell’economia. Sono di fatto una

Chi la paga questa tassa?

«Di solito la pagano tre attori: sicuramente la pagano le aziende importatrici che ovviamente pagano di più la materia prima. Poi a pagare sono i consumatori; se l’Europa tassa il software o la licenza d’uso di una tecnologia, il consumatore italiano non paga immediatamente di più, ma l’impresa che usa quel software ha costi più alti, quindi dovrà alzare i prezzi e a quel punto tra qualche mese il consumatore si vedrà un’inflazione di cui non c’è un’origine precisa. Infine è una tassa che pagano tutti i cittadini, perché il dazio aumenta l’incertezza, aumenta l’instabilità, aumenta l’imprevedibilità e dove c’è imprevedibilità non ci sono investimenti

Ma che cosa importiamo dagli Stati Uniti?

«Noi importiamo dall’America moltissime cose, ma che sono molto spesso intangibili: tecnologie, software, elettronica, servizi di banking. Il consumatore italiano, di roba veramente americana sulla quale andranno a impattare i dazi ne compra ben poca. Si tratta più che altro di cose extralusso».

E l’iPhone e la Tesla?

«Sì, l’iPhone è molto popolare, però stiamo sempre parlando di un telefono che costa il doppio di uno normale, così come una Tesla. Il consumatore non se ne rende conto, ma l’America è nel latte che beviamo, nel software che usiamo, nelle fotografie che facciamo. L’America è dappertutto, è l’impero dell’intangibile. L’iPhone sarà più caro? Forse, ma è il lavoratore che lavora di meno e quindi ha meno stipendio che sarà il vero problema. Il dazio aumenta i prezzi e impoverisce il reddito: imporre dazi è una delle cose più stupide che si possa fare».

Quindi imporre dazi non ha alcuna utilità?

«Noi continuiamo a vedere il dazio come nel film “Non ci resta che piangere”: dove andate? Un Fiorino. Una tassa un po’ medievale. Gli americani esportano tantissimi servizi che sono molto più difficili da tassare. Inoltre noi abbiamo un rapporto tra bilancia commerciale e PIL del 65%, l’America del 25%, quindi se impone dazi lo fa sul 12% del PIL. Con i dazi noi ci facciamo male da soli. Quindi attenti a dire che l’Europa risponderà con i dazi, perché potrebbe non essere così, potrebbe rispondere in altra maniera, per esempio con la fiscalità mirata alle aziende americane. Non conviene all’Europa seguire Trump in una guerra dei dazi».

Si dice però che i dazi servano a un Paese per proteggere i suoi lavoratori

«I dazi non hanno alcun effetto di protezione del lavoro nazionale. Dai numeri dell’OCSE, in America solo l’1,7% dei lavoratori è impattato da merci di importazione, in Europa è più alto, il 3,3%, ma stiamo sempre parlando di un 97% di lavoratori che non ha un danno dalle importazioni, al contrario. Quindi l’idea che chi importa ruba il lavoro è una menzogna. Festeggiare i dazi è come il “festival di Tafazi”».

FONTE

LA CADUTA DI UN SIMBOLO GLOBALE E L’INIZIO DI UNA VERA RESPONSABILITÀ

Il dottor Anthony Fauci, un tempo ostentato come il volto della “scienza” globale ed elevato da istituzioni che hanno messo a tacere ogni dissenso, ora è formalmente accusato di omicidio colposo su una scala precedentemente impensabile nella medicina moderna. Il governo della Nuova Zelanda ha presentato accuse per 107.357 capi d’imputazione , segnando la prima importante azione legale contro l’uomo ampiamente considerato il capo architetto della politica globale COVID. Non si tratta di vendetta politica, si tratta di giustizia a lungo ritardata.

Dietro l’immagine pubblica attentamente curata di autorità calma, Fauci ha orchestrato politiche che hanno portato a perdite di vite umane catastrofiche, devastazione psicologica e un crollo delle libertà civili in tutto il mondo. Ora, mentre i mandati internazionali si accumulano e i procedimenti legali prendono forma, la narrazione sta crollando, e con essa il mito del medico benevolo.

Le accuse della Nuova Zelanda non sono simboliche. Il caso contro Fauci si basa su dati, direttive e comunicazioni interne che indicano un modello di negligenza intenzionale e soppressione dolosa di percorsi di trattamento alternativi. I procuratori sostengono che Fauci ha consapevolmente approvato politiche, tra cui il rifiuto di terapie, l’applicazione di lockdown e la spinta incessante per vaccini sperimentali non testati, che hanno portato direttamente a decine di migliaia di morti prevenibili.

Ognuna delle 107.357 accuse corrisponde a un essere umano che è morto mentre trattamenti precoci, sicuri ed efficaci venivano denigrati, mentre la paura e l’obbedienza venivano trasformate in armi e mentre il dibattito scientifico veniva messo a tacere per decreto.


107.357 MORTI — E UN SISTEMA CHE HA PROTETTO I CRIMINALI

Le accuse della Nuova Zelanda non sono simboliche. Il caso contro Fauci si basa su dati, direttive e comunicazioni interne che indicano un modello di negligenza intenzionale e soppressione dolosa di percorsi di trattamento alternativi. I procuratori sostengono che Fauci ha consapevolmente approvato politiche, tra cui il rifiuto di terapie, l’applicazione di lockdown e la spinta incessante per vaccini sperimentali non testati, che hanno portato direttamente a decine di migliaia di morti prevenibili.

Ognuna delle 107.357 accuse corrisponde a un essere umano che è morto mentre trattamenti precoci, sicuri ed efficaci venivano denigrati, mentre la paura e l’obbedienza venivano trasformate in armi e mentre il dibattito scientifico veniva messo a tacere per decreto.

Questa non era incompetenza.


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IL CASO DEI CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ: LA LINEA DI NORIMBERGA È STATA OLTREPASSATA

Per comprendere la gravità di queste accuse, bisogna guardare oltre i confini nazionali e nel quadro del diritto internazionale . Le azioni di Fauci, in particolare il suo ruolo nell’imporre l’aderenza di massa alle procedure mediche sperimentali, senza il pieno consenso informato o un aperto controllo scientifico, violano il Codice di Norimberga , la Convenzione di Ginevra e il fondamento stesso della medicina etica.

Dalla soppressione di trattamenti come l’ivermectina e l’idrossiclorochina , alla campagna coordinata per censurare i professionisti medici, i whistleblower e persino i pazienti che mettevano in dubbio la narrazione, Fauci ha supervisionato un’infrastruttura globale di coercizione. Non stava agendo come consulente medico, stava operando come esecutore politico con una licenza medica.

Le conseguenze di quelle decisioni sono andate ben oltre il COVID.
Hanno innescato ondate di suicidi, fatto crollare le economie, ritardato i trattamenti contro il cancro e distrutto il tessuto sociale di innumerevoli comunità. Lo ha fatto con il pieno sostegno delle aziende farmaceutiche e dei giganti della tecnologia, e ora quell’alleanza del silenzio si sta incrinando.

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