Da che punto si racconta un storia?

Raccontando la carneficina in corso a Gaza secondo il racconto mediatico dominante non esiste nulla prima del 7 ottobre: la storia inizia con un’organizzazione terroristica che, non si sa perché, decide di andare a compiere una strage in Israele. In questo modo il gioco è fatto e il racconto è semplicissimo: da una parte dei pazzi estremisti, dall’altra il diritto a difendersi di uno Stato. Ogni ragionamento è rimosso e al massimo si può discutere timidamente se forse le forze israeliane non stiano un poco esagerando nella reazione, portando così il dibattito pubblico all’esatto livello desiderato dal potere politico.

Quando invece si parla delle ragioni storiche del conflitto la parola passa invece alla storiografia dominante, ovvero quella che ha accesso alla tv e ai grandi media, che in Italia è fatta sempre da un piccolo manipolo di giornalisti scelti. Il massimo rappresentante ne è probabilmente Paolo Mieli, che distribuisce pillole di storiografia preconfezionata come autore di Rai Storia e come editorialista del Corriere della Sera. All’indomani degli attacchi del 7 ottobre, a Mieli, sono bastati 60 secondi per confezionare la propria pseudo-storia del conflitto in un video prodotto dal Corriere: “Tutto ha inizio nel novembre 1947, quando le Nazioni Unite decidono la nascita di due Stati: uno ebraico e uno palestinese. Il 14 maggio 1948 lo Stato ebraico nasce, mentre dalle terre in cui doveva nascere lo Stato palestinese arriva un’aggressione dei Paesi arabi contro Israele, perché quello Stato vada in pezzi immediatamente”. Anche qui, naturalmente, tutto torna e la colpa è chiara. Ma la storia non si può fare in 60 secondi e soprattutto non inizia da dove la fa cominciare Paolo Mieli. Per comprendere il conflitto in Palestina bisogna partire da un altro mezzo secolo prima, se no non si capisce niente.

Conferenza di Berlino, 1884, piena epoca coloniale. Le potenze europee si ritrovano per ammantare di diritto le proprie pretese sul resto del mondo, e così nasce il principio legale della terra nullius, che in buona sostanza afferma razzisticamente che esistono territori di nessuno, scarsamente abitati da popolazioni incivili che possono essere occupati legittimamente dalle civiltà superiori. La Palestina, dove all’epoca vivevano circa mezzo milione di arabi e appena 24.000 ebrei (meno del 5% della popolazione) viene designata terra nullius, quindi colonizzabile. Il movimento sionista, anch’esso nascente in quegli anni, coglie la palla al balzo e afferma di voler andare in Palestina con il sacro diritto di rappresentare un “popolo senza terra che vuole prendere una terra senza popolo”. Ma il problema è che il popolo c’era, non era ebraico e non voleva farsi colonizzare. Con i soldi raccolti in occidente e con le armi comincia la colonizzazione ebraica a danno dei palestinesi. Ancora nel 1947, quando inizia la storia secondo gli amanuensi del pensiero governativo, i palestinesi rappresentano il 75% della popolazione. La loro “colpa” è quindi quella di aver rifiutato prima di farsi colonizzare e sfollare in silenzio, poi di non aver accettato una partizione assurda della loro terra in due Stati che avrebbe assegnato a poche decine di migliaia di coloni oltre la metà delle terre.

L’indice del nuovo numero

  • Una storia coloniale
  • Io sono un palestinese
  • Cronistoria ragionata di un conflitto lungo oltre un secolo
  • Gaza, la prigione a cielo aperto più grande del mondo
  • La lunga scia di violazioni del diritto internazionale da parte di Israele
  • È vero che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente?
  • La posizione degli Stati internazionali nel conflitto
  • L’attivismo per la Palestina nel mondo e il movimento BDS
  • La pace impossibile: come potrebbe finire il conflitto israelo-palestinese
  • Per approfondire: i consigli della redazione

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giornalista e scrittrice milanese, lavora sul web dl 1996 come freelance, ha creato diversi siti di informazione al servizio dei cittadini
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