Gli Amici della Cascina Linterno, nell’ambito di Piano City Milano 2015, con il Patrocinio del Ministero alla Cultura, del Comune di Milano e del Municipio 7 di Milano, invitano tutta la cittadinanza alla Piano Lesson del M.o Vincenzo Culotta
Domenica 25 Maggio 2025 – Ore 10,30 – Aia e Porticato delle Colonne di Cascina Linterno
Autobus 67 da M1 “Bande Nere”, 49 da M1 “Inganni” e M5 “San Siro”, 63 e 78 da M1 “Bisceglie”
Dal 23 al 25 maggio 2025 torna Piano City Milano
Il festival che fa risuonare la musica del pianoforte in ogni angolo del capoluogo lombardo – dai parchi ai cortili, dalle piazze alle case private che si aprono al pubblico per l’occasione fino a numerosi spazi insoliti e inediti che vengono inaugurati con la rassegna. L’edizione 2025, diretta da Ricciarda Belgiojoso e Titti Santini, animerà Milano con oltre 250 concerti in più di 130 luoghi diversi, trasformando ogni angolo della città in un palcoscenico aperto, inclusivo e sorprendente. Il festival offre centinaia di concerti gratuiti per tutti gli amanti del pianoforte, portando la musica tra la gente grazie all’energia di alcuni dei più talentuosi pianisti italiani e internazionali. Piano City Milano è molto più di una rassegna musicale: è un progetto culturale condiviso, costruito grazie a una solida rete di collaborazioni tra istituzioni pubbliche e realtà private, che rende possibile un evento diffuso, gratuito e accessibile a tutti.
Nato a Milano, ha conseguito il diploma di Pianoforte nel 1998 al Conservatorio “G. Verdi” della sua città, sotto la guida del M° Mario Delli Ponti. Nel 2002 si è laureato in Filosofia all’Università degli Studi di Milano col prof. Carlo Sini. Alla ricerca di percorsi di comunicazione musicale – sia in ambito concertistico che educativo – nella direzione di una performatività olistica della prassi e dell’ascolto della musica. Sul tema dell’ascolto come prassi percettiva “incorporata”, nel 2020 ha conseguito un Dottorato presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca con una tesi sperimentale sull’allestimento di laboratori di ascolto musicale intesi come formazione di formatori, nel segno della embodied Knowledge. Da gennaio 2024 ha creato un atelier non solo musicale – “Porto d’arte – che ospita concerti, laboratori di ascolto musicale, performance audio-visivi
Info 334 738 1384 – Partecipazione libera – Vi aspettiamo numerosi
Sabato 17 e domenica 18 maggio a Milano torna Open House, la manifestazione che permette di scoprire luoghi solitamente non fruibili, partecipando a diversi tour tematici tra case private e studi di architettura.
Che cos’è Open House
Un weekend di “architetture aperte” per conoscere e condividere l’architettura. Con Open House si vuole invitare il pubblico ad esplorare e discutere il valore di un ambiente ben progettato, comprendere e conoscere le architetture della propria città e la loro storia.
Dal 2015 Open House Milano fa parte del circuito Open House Worldwide che si sviluppa in 4 continenti e oltre 50 città.
Dal centro alle periferie
L’evento si svolge in tutta la città, dal centro alle periferie. La città è stata divisa con l’antico criterio dei Sestieri: 6 aree che si sviluppano sulle direttrici delle storiche porte, dal centro alla periferia, per scoprire anche lo sviluppo urbanistico della città.
Open House promuove un concetto di città partecipata dai cittadini, per favorire il dialogo fra pubblico e privato, fra cittadinanza e impresa e accrescere il senso di appartenenza alla propria città.
Non appena il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha messo piede nell’aeroporto della capitale saudita, per firmare l’accordo sulla vendita di armi e di investimenti sauditi negli USA per un valore pari a 600 miliardi di dollari è stato accolto da un interminabile tappeto viola che nelle tradizioni locali significa regalità, magnificenza e abbondanza.
Sembra passato un secolo quando Joe Biden non riusciva nemmeno a parlare al telefono con l’erede al trono, Mohammed bin Salman.
La presidenza di Joe Biden un giorno andrà davvero studiata meglio perché mai prima d’ora si era visto un atteggiamento simile da parte delle varie cancellerie internazionali che snobbavano senza pudore alcuno quello che sulla carta era il presidente degli Stati Uniti, ma che nella pratica non sembra esserlo mai stato, soprattutto alla luce di quanto sta facendo emergere Trump che parla di molte firme invalide da parte dell’ex inquilino della Casa Bianca.
La storia adesso è completamente diversa.
Il mondo sa chi è il comandante in capo, e i sauditi per primi non hanno alcun dubbio al riguardo.
Si ritorna da dove si era partiti dunque, quando nel 2016 Donald Trump allora accompagnato da sua figlia Ivanka e suo marito, Jared Kushner, allontanato da Trump per la sua vicinanza a Israele, erano atterrati a Riyadh per iniziare a tessere il filo delle relazioni mediorientali dell’amministrazione Trump, ma all’epoca l’Arabia Saudita attraversava una fase geopolitica molto diversa e soprattutto Trump era appena agli inizi di un suo piano che prevedeva il graduale divorzio degli Stati Uniti dello stato di Israele.
Dopo aver visitato l’Arabia Saudita allora, Trump si recò in visita allo stato ebraico, mentre in questa occasione il presidente è giunto in Medio Oriente senza nemmeno fermarsi presso lo storico “alleato” americano.
E’ un cambio radicale del paradigma della politica estera americana che per più di mezzo secolo è stata saldamente nelle mani dei vari gruppi di pressioni ebraici e sionisti.
La politica degli Stati Uniti nelle mani del mondo ebraico
Non c’era foglia un tempo infatti che non si muovesse in Medio Oriente che non volesse non tanto Washington, ma Tel Aviv.
La superpotenza americana si è ritrovata ad essere suo malgrado non come una repubblica sovrana padrona del suo destino, ma piuttosto come un potentissimo conglomerato politico, economico e militare che veniva utilizzato contro i vari avversari dello stato ebraico.
Non è esistita difatti per 80 anni una geopolitica americana, ma una israeliana che ha agito sin dal primo momento della nascita dello stato ebraico voluto dal filosofo sionista, Theodor Herzl, come un garante ed un esecutore della volontà israeliana in Medio Oriente.
I politici che provarono ad opporsi a questa condizione di sottomissione dell’America verso Israele sono stati tutti via via estromessi, e alcuni sono morti in circostanze mai realmente chiarite.
E’ toccata simile sorte, ad esempio, a James Forrestal, ex segretario alla Marina degli Stati Uniti, che sul finire degli anni’40 espresse tutta la sua contrarierà alla creazione dello stato di Israele che a suo dire avrebbe sconvolto completamente i fragili equilibri con gli altri Paesi del Medio Oriente e compromesso i rapporti di Washington con il mondo arabo.
Forrestal non fece in tempo a fare la sua denuncia che l’allora presidente Truman, altro sodale della massoneria, lo estromise dalla sua amministrazione per poi lasciarlo rinchiudere in un ospedale psichiatrico fino ad arrivare all’epilogo del presunto suicidio dell’ex segretario americano, probabilmente invece ucciso per le sue scomode posizioni.
James Forrestal
Stessa sorte toccò a John Fitzgerald Kennedy, la cui famiglia aveva una lunga storia di contrapposizione agli interessi del mondo ebraico, già quando suo padre, Joe, il capostipite della famiglia, si scontrò con i signori della mafia ebraica, Meyer Lanksy su tutti, per gli interessi sul commercio clandestino di alcol ai tempi del proibizionismo.
JFK aveva ricevuto una chiara lezione da suo padre Joe.
Sapeva che la lobby sionista ed ebraica era diventata una potentissima forza e sapeva anche che le famiglie che avevano in mano la banca centrale americana dal 1913 in poi erano quelle dei Warburg, dei Rockefeller, dei Vanderbilt, degli Schiff e dei Kuhn & Loeb, ovvero i vari signori della finanza askenazita che erano divenuti i padroni assoluti del capitale negli Stati Uniti.
Sapeva anche bene John che Israele difficilmente sarebbe venuta a miti consigli.
John già dai tempi della sua ascesa in politica, quando divenne senatore per lo stato del Massachusetts, aveva degli stretti rapporti con un imprenditore di origini ebraiche quale Benjamin Freedman che fino a qualche decennio prima era un convinto falco sionista fino a trovare poi la strada della conversione al cattolicesimo che lo rese un acerrimo nemico e una figura da cancellare dalla storia americana.
Benjamin Freedman
Raramente infatti si trovano biografie o citazioni negli organi di stampa su questo vero e proprio pentito del sionismo americano poiché soltanto raccontare la sua storia sarebbe come a dire che non esiste alcun “complotto antisemita” riguardo alle intenzioni di Israele di costruire un suo impero in Medio Oriente, ma soltanto una realtà oggettiva ed effettiva rivelata da coloro che appartenevano e appartengono tuttora a quel mondo.
Kennedy, com’è noto, non fece in tempo a recidere i fili che legavano gli Stati Uniti ad Israele.
Sulla Dealey Plaza di Dallas, in Texas, veniva ucciso a colpi di arma da fuoco da coloro che volevano impedirgli di fermare il programma nucleare israeliano che avrebbe dato allo stato ebraico una bomba atomica e la possibilità un domani di provocare un vero e proprio olocausto nucleare contro i Paesi arabi “nemici” di gran lunga più devastante dei crimini commessi dalla presidenza Truman contro i civili di Hiroshima e Nagasaki, una città quest’ultima sede di cattolici giapponesi a dimostrazione che lo stato profondo di Washington voleva sterminare questi in particolar modo.
Gli Stati Uniti così continuarono ad essere i fedeli vassalli dello stato ebraico.
Kennedy non aveva stima alcuna per Johnson. Gli fu imposto più che altro per logiche di equilibri interni, e Johnson a sua volta ricambiava il disprezzo per i fratelli Kennedy, tanto da apostrofarli come “figli di puttana” il giorno prima dell’omicidio di JFK, come rivelò la ex amante di Johnson, Madeleine Duncan Brown, che ammise che il vicepresidente sapeva che il 22 novembre del 1963 Kennedy sarebbe stato giustiziato.
Johnson, nemmeno a dirlo, è stato un formidabile alleato, o servo, dello stato ebraico, come ammettono i vari quotidiani israeliani che lo definiscono come uno dei presidenti americani più sionisti della storia.
Non c’è da sorprendersi che lo descrivano in tali termini, se si pensa che Johnson fu quel presidente che nel 1967 lasciò uccidere da Israele 34 marinai americani a bordo della nave USS liberty, bombardata dagli aerei israeliani che avevano in programma di dare la colpa dell’attacco all’Egitto così da trascinare l’America in un’altra guerra voluta da Israele.
La USS Liberty dopo aver subito l’attacco da parte dei caccia israeliani
Nixon, il successore di Johnson, era un uomo molto conscio che esisteva tale problema negli Stati Uniti e nelle sue conversazioni nel 1972 con uno dei suoi consiglieri, l’evangelista Billy Graham, affermava esplicitamente che gli ebrei costituivano un problema per via dello loro infedeltà verso gli Stati Uniti, ma il presidente nulla riuscì a fare al riguardo.
Billy Graham e il presidente Nixon parlano della questione sionista ed ebraica
Si ritrovò schiacciato nel 1973 dalla montatura del Watergate, orchestrata dal suo segretario di Stato, Henry Kissinger, falco sionista e membro di tutti i club del mondialismo che contano, tra i quali il Bilderberg, la Trilaterale e il club di Roma.
Arrivano così gli anni’90 e 2000, gli anni nei quali vengono eseguiti gli attentati terroristici sui quali si trovano non poche impronte dello stato di Israele, a partire da quelle dei cinque agenti del Mossad che esultavano estasiati davanti al crollo delle torri gemelle, e a partire da quelle della società israeliana che minò gli edifici caduti con degli esplosivi nei mesi precedenti.
Inizia l’era del terrore in Medio Oriente. Inizia l’era della “democrazia esportata”.
A Washington ci sono i pericolosi neocon come Paul Wolfowitz, Dick Cheney, John Bolton e Donald Rumsfeld che sono i veri padroni dell’amministrazione Bush, mero esecutore del programma scritto per lui dalla lobby sionista americana e da quella setta Chabad Lubavitch che aspira ardentemente alla venuta del moschiach e dell’inizio del Nuovo Ordine Mondiale.
Si esegue in pratica il programma rivelato nel 2007 da un falco del Pentagono come il generale Wesley Clark che disse in quell’occasione che Washington aveva intenzione di scatenare guerre a sette Paesi quali l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria, la Somalia, l’Iraq, il Sudan e il Libano.
Non esisteva alcuna logica geopolitica dal punto di vista americano nel fare guerra a quei Paesi, ma la logica era soltanto quella dello stato di Israele che voleva disfarsi dei suoi “nemici” e iniziare a poco a poco ad annettere le parti dei suoi vicini alla ricerca del “sogno” imperiale della Grande Israele, come negli ultimi tempi ha ribadito il ministro delle Finanze, Smotrich, che senza troppi pudori ha ammesso che i confini di Israele devono giungere fino a Damasco.
L’era Trump e la fine del sionismo americano
La venuta di Donald Trump è quell’evento che cambia la storia e crea un’America del tutto diversa da quella conosciuta dalla seconda guerra mondiale in poi.
Washington torna alle sue radici.
Non più potenza imperiale cuore della devastazione mondiale, ma repubblica sovrana, indipendente, del tutto simile all’America lasciata in eredità da Abraham Lincoln, ucciso da William Booth, uomo legato alla massoneria e vicino al casato dei banchieri di Francoforte, i Rothschild.
Sin dal primo momento, Trump ha mostrato una particolare astuzia e abilità politica nei riguardi dello stato di Israele, al quale ribadiva la sua “amicizia” attraverso varie dichiarazioni di stima, disattese però dalla sua geopolitica in Medio Oriente che sin dal primo momento ha ordinato il ritiro delle truppe americane dai Paesi arabi.
Trump si è confermato alquanto astuto. Conosce bene la storia degli Stati Uniti.
Sa quali sorti sono toccate ai vari presidenti che hanno sfidato Israele, e sapeva che per avere la meglio su questa forza era necessario dissimulare le sue vere intenzioni attraverso attestati di stima formali che prima o poi avrebbero comunque portato ad attriti con Israele, una volta che il presidente avesse iniziato a lasciare il Medio Oriente.
Già nel 2019, il presidente americano aveva dichiarato la sua intenzione di lasciare la Siria, e due anni dopo, all’alba della frode elettorale ai suoi danni, il primo a riconoscere Biden come presidente è stato proprio Netanyahu che sperava ancora una volta di avere il presidente americano dalla sua parte.
Il divorzio definitivo tra Stati Uniti ed Israele
Non appena ha avuto inizio il secondo mandato di Trump, c’è stata l’inevitabile incrinatura dei rapporti tra i due.
Il presidente americano ha iniziato a trattare unilateralmente con Teheran senza cercare alcuna approvazione da parte degli israeliani che sono andati su tutte le furie e sono rimasti completamente spiazzati dalla determinazione di Trump.
A nulla sono valsi i tentativi del consigliere della sicurezza nazionale, Waltz, di sabotare l’agenda del presidente americano che non appena saputo che il suo consigliere era all’opera per cercare un’altra guerra con l’Iran lo ha prontamente spedito a New York a ricoprire il ruolo di ambasciatore presso l’ONU, nella ennesima applicazione pratica della massima latina promoveatur ut amoveatur.
Secondo il giornalista americano David Railly, Trump avrebbe anche deciso di chiudere le porte della Casa Bianca alla famigerata lobby israeliana dell’AIPAC, che sin dalla sua esistenza è stata una forza decisiva non solo nello scegliere i presidenti degli Stati Uniti, ma nell’indirizzarne fedelmente le loro politiche.
Stessa musica per quello che riguarda un altro “nemico” di Israele, gli agguerriti Houthi che hanno creato non pochi problemi allo stato ebraico il quale si lamentava già prima dello scarso sostegno americano contro la milizia yemenita.
A Tel Aviv sembrano essere pertanto giunti ad una conclusione inevitabile.
Il sostegno di Trump non va oltre le parole, e nei fatti si vede poco o nulla, salvo quella dichiarazione di riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana, che tra l’altro non è mai stato nemmeno completato poiché l’ambasciata americana è ancora oggi a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme.
Il presidente americano è dunque un vero e proprio unicum.
E’ il primo capo di Stato americano dal’45 che riesce finalmente a portare avanti una propria geopolitica in Medio Oriente che non sia quella voluta da Israele.
Il divorzio era di conseguenza inevitabile e questo spiega perché sia nella frode elettorale del 2020 sia nel tentativo di omicidio di Trump dello scorso luglio ci sia la presenza dei vari fondi di investimento legati alla lobby sionista, come ad esempio il fondo Austin, che il giorno prima che Thomas Crooks, il 20enne di origini ebraiche studente di BlackRock, sparasse contro la testa del presidente scommetteva somme da capogiro contro la società di Trump, ben consapevoli che qualcosa di grave potesse accadere.
E’ a sua volta consequenziale l’assalto mediatico degli organi di (dis) informazione americana nelle mani di sei gruppi tutti integrati nel mondo sionista, a dimostrazione che la campagna disinformativa della falsa controinformazione che si è impegnata in ogni mondo a dimostrare che Trump è una marionetta di Israele altro non è che una grossa menzogna fabbricata proprio da quegli ambienti ostili a Trump.
Viene quasi da sorridere se si pensa alla disfatta dei vari falsi controinformatori che affermavano che Trump fosse nelle mani dei coniugi Adelson, famigerati magnati del sionismo, che da sempre finanziano il partito repubblicano, indipendentemente da Trump, e che oggi si vedono negare al telefono proprio dal presidente americano.
I coniugi Adelson
Trump non risponde a nessuno. Non è un presidente a noleggio. Non è George W. Bush nelle mani dei neocon, né tantomeno è Barack Obama, il premio “nobel per la pace” che si dava da fare per mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente attraverso il suo sostegno all’ISIS, creatura dei sauditi e di Israele.
L’Arabia Saudita: da alleato di Israele a parte del mondo multipolare
Il miracolo più significativo che Trump ha compiuto è stato forse proprio questo.
Ha stabilito una nuova alleanza con l’Arabia Saudita, la creatura del sionismo, che da potenza destabilizzante del mondo arabo ha scaltramente saltato lo steccato ed è passata con il mondo multipolare negli ultimi anni.
Soltanto 7 anni addietro, Riyadh era impegnata nel massacro della popolazione civile yemenita e nel combattere gli Houthi, la milizia vicina all’Iran, perché i sauditi non stavano seguendo un’agenda politica che facesse gli interessi del loro Paese, ma piuttosto quella di Israele.
L’Arabia Saudita ha iniziato una nuova fase di distensione con Teheran, tanto che poco prima di ricevere Trump a Riyadh, i dignitari sauditi si incontravano con il ministro degli Esteri iraniano, a conferma di una fase nuova, del tutto diversa nella storia dei due Paesi che soltanto nel 2019 erano su fronti opposti.
La storia sta cambiando veramente in fretta, ad una velocità incredibile se si pensa che nel giro di poco più di un quinquennio stanno venendo meno equilibri e assi che duravano da 80 anni.
Il caso saudita resta probabilmente il più clamoroso.
La culla del wahabismo e del terrorismo islamico benedetto da Israele e dallo stato profondo di Washington che dopo l’era Trump e dopo l’avvento del multipolarismo inizia a diventare una potenza regionale che non vuole più destabilizzare i suoi vicini, ma cerca piuttosto di convivere pacificamente con essi, come visto con la guerra nello Yemen, iniziata e terminata da bin Salman, e come visto con la nuova politica di avvicinamento verso Teheran.
In altre parole, Trump ha costruito un risiko mediorientale del tutto nuovo.
Non esistono più gli Stati Uniti che bombardano indiscriminatamente i Paesi arabi per compiacere lo stato ebraico dietro il paravento della esportazione della democrazia, il paradigma al quale il mondo Occidentale liberale è ricorso per anni pur di portare avanti la sua agenda imperialista e globalista.
Gli Stati Uniti sono quel Paese che oggi va in Arabia Saudita e condanna quei bombardamenti indiscriminati fatti da uomini come George W. Bush e Barack Obama, fedeli emissari e rappresentanti della lobby sionista e della governance globale della quale Washington era portavoce.
Trump oggi dichiara che non può esistere una pace stabile e duratura che non passi dall’esplicito riconoscimento e rispetto delle sovranità e culture nazionali che non possono essere certo sostituite dal modello liberal-democratico nelle mani di vari potentati bancari e industriali, che oggi tra l’altro si trovano sempre più in difficoltà anche nell’Unione europea, l’ultima debole roccaforte rimasta nelle mani dei decaduti signori del mondialismo.
Si inaugura così una nuova era.
Non poteva iniziare l’era di un’America finalmente libera e sovrana senza prima passare dall’esautoramento della sua dipendenza da Israele.
L’ultimo storico passo sarebbe il riconoscimento dello Stato palestinese da parte degli Stati Uniti, una ipotesi che è trapelata nei giorni scorsi e che Trump starebbe seriamente prendendo in considerazione.
Lo stato ebraico così si ritrova solo e debole.
Non ci sono più gli Stati Uniti dalla loro parte, tantomeno i sauditi che ormai pensano alla esclusiva tutela dei loro interessi nazionali.
A Tel Aviv, qualcuno ancora parla della necessità di invadere militarmente Gaza, scenario fortemente condannato da Trump che attraverso il suo segretario di Stato, Rubio, ha espresso la sua forte opposizione a qualsiasi piano per espellere i palestinesi da Gaza.
Se Israele vorrà veramente seguire tale strada in una condizione di assoluto isolamento e senza il supporto degli Stati Uniti, non è escluso che possano esserci futuri incidenti tra israeliani e americani proprio nella striscia di Gaza.
A Tel Aviv, sembrano essere in preda ad una delirante febbre imperialista.
Sembra che non vogliano riconoscere il fatto ormai che lo stato ebraico ha perduto le protezioni di un tempo, e sembra che non vogliano ammettere che oggi Israele fa i conti con una strisciante guerra civile dentro i suoi servizi e dentro il suo apparato militare, nei quali ci sono fazioni che vorrebbero mettere un freno a questa folle corsa alla Grande Israele.
Non è chiaro cosa voglia fare davvero Israele, ma a Tel Aviv sono avvisati.
Stavolta alla Casa Bianca non c’è Lyndon Johnson.
C’è Donald Trump, e se Israele metterà a rischio la sicurezza degli Stati Uniti, ci sarà una probabile risposta.
Se qualcuno soltanto 10 anni fa avesse detto che un giorno Israele e Stati Uniti sarebbero giunti a questo punto, sarebbe stato preso per folle.
Ecco dove si è arrivati nel tempo contemporaneo. Ecco dove ha portato il mondo multipolare e la fine del mondialismo.
E’ la fine degli imperi, degli imperialismi e dell’illimitato potere del sionismo.
E’ il prepotente ritorno della difesa della sovranità nazionale.
Con i suoi oltre 40mila metri quadrati di superficie, Cowboyland è un parco dove bambini e adulti possono trascorrere una giornata o il weekend all’insegna del divertimento all’aria aperta. Tra le principali attività: spettacoli, contatto con gli animali, animazioni e molto altro.
La nuova stagione
La stagione 2025 riparte con una spettacolare novità a partire dal 19 aprile, ovvero il nuovo spettacolo “Crazy Wild West – Live Stunt Show”. Uno show unico nel suo genere, dove 12 stunt professionisti metteranno in scena un incredibile avventura ambientata nella cittadina di San Antonio, tra scazzottate, sparatorie e sorprese mozzafiato, il tutto per far rispettare la legge della città.
In un’area dedicata di oltre 2000 mq, lo spettacolo vedrà la partecipazione di 25 persone tra comparse e addetti. La scenografia riproduce la tipica ambientazione western, che già è possibile ritrovare in molti degli spazi del parco Cowboyland. Crazy Wild West – Stunt Live Show sarà compreso nel biglietto d’ingresso.
Le aree tipiche del vecchio West
Indian Village è un vero e proprio villaggio indiano con teepee e totem, dove va in scena lo spettacolo di Luna Raggiante e Cervo Veloce.
La Canoa di Toro Seduto, invece, è un viaggio simbolico nella spiritualità indiana. Un’esperienza indimenticabile per i baby cowboy è l’Indian River: un breve viaggio a bordo di canoe e di tronchi, lungo le tranquille acque del fiume indiano ricreato in ogni minimo particolare.
Il contatto con gli animali
In First Emotion è possibile per gli adulti provare un giro nel recinto in sella a cavalli, guidati dallo staff di Cowboyland. Animal Adventure è la fattoria di Cowboyland dove conoscere da vicino daini, lama, asinelli, caprette e pecore, oltre 30 cavalli, 5 pony, galline, oche e vitelli e bisonti americani, per un percorso divertente ed educativo. Stable Tour è un momento tutto dedicato al cavallo.
E poi: la visita alla scuderia per scoprire la vita, le abitudini e alcune curiosità su questo animale simbolo del Far West. Pony Ride è dove i piccoli pony sono tra i protagonisti di Cowboyland: accompagnano i bambini lungo un percorso all’interno di un bosco.
Le attrazioni immancabili del parco
Cowboyland Railroad è il trenino di Cowboyland è pronto a partire con tutti i bambini. Il percorso “turbolento” che attraversa una vecchia miniera e spesso viene preso d’assalto dai banditi che vivono in quelle terre. Gold Mine Train sono le montagne russe in stile western. Un’avventura in un percorso adrenalinico con salite, discese ed evoluzioni mozzafiato.
Cow Bus è invece un divertente mezzo di trasporto per un giro panoramico del parco in tutto relax. Ranger Station è un percorso con auto elettriche per grandi e piccini.
Giochi, divertimento e la scuola di lazo
Old West Game è la zona riservata ai tiri. Grandi e piccoli si sfidano al lancio del ferro, lancio del pollo pupazzo nella pentola, lancio delle palline contro i barattoli e sparano con il fucile.
Lazo Stage è la scuola di lazo di Cowboyland, dove esperti cowboy sono a disposizione del pubblico per insegnare la tecnica base di questa specialità. Fort Alamo è un tradizionale parco giochi per il divertimento dei più piccoli con altalene, scivoli, dondoli.
Un momento di relax pensato per i bambini, ma anche per i genitori. In American Rodeo si possono provare le emozioni dei veri campioni del Rodeo americano. Bambini sopra gli 8 anni possono cimentarsi con il bisonte meccanico provando a rimanere in sella, mentre i più piccoli possono utilizzare il pony meccanico.
Non poteva mancare poi un piccolo teatro chiamato Charly Frenchy Beyssier Rodeo Theatre, dove assistere ai più entusiasmanti filmati del rodeo. Il Cinema 7D è un mix tra un film tridimensionale e una simulazione dell’ambiente altamente realistica.
Gli spettacoli
Sempre in scena, poi, gli spettacoli permanenti curati dagli animatori del parco. Balli country dove la tipica danza dei cowboy, la line dance, è protagonista assieme ai ballerini. Indian Show, uno spettacolo dove vengono messi in scena usi, costumi e tradizioni delle tribù indiane d’America.
Il Magic Show con maghi del West che con i loro scherzi e giochetti. Cowboy Show dove un tipico carro chuckwagon scortato da cowboy a cavallo che, guidando i vitelli lungo le strade di Cowboyland, metteranno in scena un esempio di vita quotidiana dei mandriani.
Cowboys’ Guest Ranch
Cowboyland si trova all’interno del Cowboys’ Guest Ranch, che proprio quest’anno festeggia il trentennale. Cowboys’ Guest Ranch è aperto a tutti i visitatori del parco tematico Cowboyland, che possono quindi usufruire del Cowboys’ Restaurant dove gustare i migliori piatti Tex-Mex, ma anche il Cowboys’ Hotel, un albergo con camere a tema arredate in stile country.
L’Associazione “Amici Cascina Linterno”, nell’ambito di “PeriferieARTMI 2025” e del Programma di Iniziative 2025 degli Amici Cascina Linterno, con il Patrocinio del Municipio 7 di Milano e del Parco Agricolo Sud, invitano tutta la Cittadinanza alla Visite Guidata a Cascina Linterno ed alle splendide Aree di Natura e di Agricoltura del Parco delle Cave alla scoperta del magico Mondo degli Insetti – Sabato 17 Maggio 2025 – Ore 10 – Ritrovo presso la Chiesetta dell’Assunta – Via F.lli Zoia, 194 – 20152 – Parco delle Cave – Milano
Con l’appassionata guida di Isabella Regazzi, Entomologa, faremo una vera e propria “immersione”, nella giornata internazionale dedicata alle api, nel mondo degli insetti del Parco delle Cave, alla scoperta di queste piccole ma affascinanti forme viventi di rara bellezza e di fondamentale importanza per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’intero ecosistema
L’organizzazione declina ogni responsabilità per fatti o inconvenienti che dovessero verificarsi nel corso dell’iniziativa
Autobus 67 (M1 – Bande Nere), 63 (M1 – Bisceglie), 78 (M1 – Bisceglie e M5 – San Siro), 49 (M1 – Inganni e M5 – San Siro)
Questa mattina Leone XIV ha parlato ai cardinali che lo hanno eletto, credo che la differenza di pensiero con Francesco sia molto accentuata (per fortuna).
“Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere. Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco.”
Si apre un nuovo pontificato carico di speranze, il mondo intero guarda al Santo Padre con affetto!
L’intervento del Presidente nazionale dell’Ordine su “Collettiva” il giornale online della CGIL:
La Giornata mondiale della libertà di stampa è stata istituita dall’ONU per ricordare la Dichiarazione di Windhoek (Namibia) del 3 maggio 1991, un documento in cui si afferma che la difesa della libertà di stampa, del pluralismo e dell’indipendenza dei media sono elementi fondamentali per la difesa della democrazia e il rispetto dei diritti umani. Principi che, nel mondo occidentale, sembravano scontati ed acquisiti. Ad oltre trent’anni di distanza dall’istituzione della Giornata mondiale, invece, ci ritroviamo a dover ribadire con forza la necessità di difendere quanto sancito dall’ONU e scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione repubblicana, nei documenti fondamentali dell’Unione Europea e di altri paesi avanzati. Negli Stati Uniti, per citare un esempio, abbiamo assistito alla cacciata dei giornalisti dell’Associated press dalle conferenze stampa della Casa Bianca, il luogo più rilevante al mondo per i media. È stato necessario chiedere l’intervento di un giudice per ottenerne la riammissione. Le due terribili guerre di Ucraina e Gaza, che si sommano ai tanti conflitti dimenticati come quelli del Sudan e del centro Africa, hanno causato il più alto numero di vittime fra giornalisti e fotoreporter. A questo va aggiunto l’inaccettabile blocco dell’accesso da parte della stampa internazionale su Gaza, che impedisce un racconto completo dei massacri e delle tragedie che si stanno consumando, soprattutto ai danni di donne e bambini. Per non parlare degli ingiustificati e inaccettabili attacchi contro quei giornalisti e quei programmi di approfondimento che provano a raccontare la tragedia di Gaza, la cui portata non può essere ridotta ad una tabellina con il numero quotidiano di morti. Al contrario di quanto accade in Ucraina dove, seppur con le pesanti limitazioni di una situazione di guerra, riusciamo a sapere le storie e i racconti della sofferenza del conflitto, su Gaza è calato un velo di silenzio nonostante gli appelli dell’ONU. Non va meglio a casa nostra. Possiamo dire che abbiamo alle spalle un “annus horribilis”. Querele temerarie e azioni giudiziarie intimidatorie contro i giornalisti si sono susseguite da parte di esponenti del mondo politico, imprenditoriale e istituzionale; mentre l’unica prospettiva di riforma del reato di diffamazione è quella che prevede il pesante aumento delle sanzioni pecuniarie, in aggiunta a un’altra serie di norme penalizzanti per i giornalisti come quella che imporrebbe di svolgere il processo nel luogo dove è stata sporta la querela. È stata data un’ulteriore stretta alle fonti giudiziarie con il provvedimento che vieta la pubblicazione, anche solo di stralci, delle ordinanze di custodia cautelare. Nel frattempo, si susseguono gli attacchi contro il giornalismo di inchiesta e i tentativi di scoprire le fonti giornalistiche, con buona pace del segreto professionale. Abbiamo appena appreso che Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, non era il solo giornalista ad essere stato oggetto di intercettazioni con il sofisticato spyware militare fornito dalla società Paragon; insieme a numerosi attivisti dei diritti umani. Con lui un altro collega, sempre di Fanpage ha subito lo stesso trattamento. Un’attività esplicitamente vietata sia dalle norme europee che dalla legge italiana Ma quanti sono i giornalisti spiati in Italia? Chi lo ha deciso in spregio a tutte le leggi e ai principi della democrazia e perché? Troviamo inspiegabile l’apposizione del segreto di Stato sulla vicenda e chiediamo risposte a fronte di una vicenda gravissima e inaccettabile. Tutto questo costituisce un peso sempre più grave sulla libertà di stampa e l’indipendenza del lavoro giornalistico. Limitazioni che si intrecciano con una crescente situazione di precarietà e incertezza lavorativa di tante colleghe e colleghi, fattori che incidono moltissimo sull’autonomia dei giornalisti. Stiamo attraversando una fase delicata per la nostra democrazia, dobbiamo esserne ben consapevoli e non avere incertezze o timidezze nel difendere il ruolo costituzionale che svolge l’informazione professionale. Un bene comune che non è un privilegio di una corporazione, ma rappresenta il diritto dei cittadini ad una informazione libera, corretta e plurale. Un diritto da difendere insieme.
Carlo Bartoli, presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti
Ci dibattiamo nella melma di un’Europa ricaduta nell’inciviltà e nella barbarie, dove sulla bocca delle sue élite, dopo 80 anni di pace, ricompaiono parole di guerra e di aggressione. Bruxelles, Parigi, Londra e Berlino sembrano immemori della lezione di due guerre mondiali che hanno portato il continente sull’orlo dell’autodistruzione. La leadership europea appare rinchiusa dentro un delirio antirusso del tutto gratuito, non condiviso dagli Stati Uniti e osservato con sconcerto dal resto del pianeta, e che non cesserà prima di aver fatto ingenti danni. In questa ora buia è importante riflettere sugli strumenti di contrasto, sulle forze della pace che sono comunque in campo. A cominciare dal diritto internazionale che Von der Leyen e soci stanno calpestando impunemente. Il piano europeo di riarmo, accompagnato da una retorica apocalittica che dipinge la Russia nei termini di una minaccia esistenziale, rappresenta una palese violazione dei principi fondamentali che governano la comunità internazionale. L’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite non lascia spazio a interpretazioni ambigue: “I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. Questa norma imperativa del diritto globale viene oggi oltraggiata dalle istituzioni europee con una disinvoltura che dovrebbe allarmare ogni cittadino consapevole. La Russia post-comunista è rientrata da 36 anni nel palcoscenico della politica estera con un programma di tranquilla cooperazione multilaterale. Ha dimostrato ampiamente il suo desiderio di amicizia e di collaborazione con l’Europa occidentale e ha normalizzato i suoi rapporti con gli Stati Uniti fino in pratica a pochi anni fa. Ha aderito agli Accordi di Helsinki, ha rispettato il Trattato di non proliferazione nucleare, ha concluso numerosi patti sulla limitazione degli armamenti. Non si è trattato di gesti simbolici. La Russia di Eltsin e Putin ha smantellato l’Armata rossa, riducendo e non aumentando le spese militari fino allo scoppio della guerra in Ucraina. Qual è stata la risposta occidentale a questi sforzi? Un progressivo accerchiamento strategico, l’espansione della Nato – un relitto della guerra fredda, un morto che ha camminato fino ai confini russi – e ora, come culmine di questa strategia, un programma di riarmo giustificato dalla narrazione paranoide di una Russia determinata a invadere l’Europa occidentale. Un elemento rivelatore della natura aggressiva di questo piano è la sua stessa esistenza in parallelo con la Nato. Se la minaccia russa fosse reale e l’intento del piano puramente difensivo, perché non utilizzare i meccanismi già esistenti dell’Alleanza atlantica? La maggior parte degli Stati membri dell’Ue appartiene già alla Nato, la cui ragion d’essere è precisamente la difesa collettiva, sancita dall’articolo 5 del suo Trattato istitutivo. Questa ridondanza degli strumenti militari tradisce l’intenzione non di proteggere ma di proiettare potenza, non di difendersi da minacce tangibili ma di aggredire. Un arsenale difensivo non necessita di una stampella aggiuntiva quando esso esiste proprio per questo scopo. La verità è che questo piano è una svolta militarista mascherata da prudenza strategica. Questa spinta guerrafondaia non è solo platealmente infondata, ma costituisce essa stessa una minaccia all’uso della forza. Presentare un Paese come aggressore incombente, in assenza di prove, serve solo a provocare, ad alimentare una spirale di tensione che potrebbe sfuggire al controllo delle parti. E trasformarsi in una profezia che si auto-adempie, dove il nemico immaginario è costretto a trasformarsi in nemico reale. Che in questo caso coincide, guarda un po’, con la maggiore potenza atomica del pianeta.
Il concetto di “difesa preventiva” che serpeggia nei documenti strategici europei è particolarmente insidioso. Il diritto internazionale riconosce la legittima difesa solo di fronte a minacce concrete e imminenti, non sulla base di ipotetici scenari futuri o peggio, di pregiudizi fasulli. Quando un’entità politica come l’Unione europea inizia a giustificare il proprio riarmo con la necessità di prevenire attacchi di cui non esiste alcuna evidenza, non sta facendo altro che minacciare l’uso della forza, violando flagrantemente l’articolo 2(4) della Carta Onu. Ci sono diverse strade che possono essere seguite per punire questa illegalità. C’è la possibilità di un ricorso alla Corte europea di giustizia da parte di una persona fisica o giuridica o di un tribunale nazionale Ue che denunci la violazione dell’articolo 21 del trattato dell’Unione europea, che stabilisce che l’azione internazionale dell’Unione deve rispettare la Carta delle Nazioni Unite. C’è la possibilità che la Russia denunci i singoli Stati dell’Ue (che, come tale, non è nell’Onu) alla massima istituzione del diritto mondiale che è la Corte internazionale di giustizia, organo Onu custode dei trattati interstatali e della stessa Carta. Ma c’è anche la possibilità che il Consiglio di sicurezza o, meglio, l’Assemblea generale dell’Onu richieda alla Corte internazionale di giustizia un parere sul tema. Il parere non sarebbe vincolante, ma il suo contenuto – se conforme allo spirito e alla lettera della Carta – avrebbe un forte impatto sulla pretesa dell’Ue di detenere la leadership del rispetto del diritto internazionale. Sarebbe un monito verso l’abbandono della retorica bellicista e verso il ritorno ai principi di fondo, pacifici e progressivi, dell’integrazione europea.
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Rossoneri vittoriosi 3-0 sui nerazzurri grazie anche a una doppietta del serbo
Jimenez si congratula a modo suo con il compagno dopo il suo primo gol
È il Milan la prima finalista della Coppa Italia 2024-25. Dopo l’1-1 dell’andata, nel ritorno del derby di semifinale con l’Inter i rossoneri si sono imposti 3-0 grazie anche alla doppietta di un super Jovic e hanno superato il turno con merito, confermando la loro supremazia stagionale nei confronti dei nerazzurri, già battuti nella finale della Supercoppa e ai quali hanno concesso un solo punto nelle due sfide di campionato. Nell’ultimo atto, mercoledì 14 maggio a Roma, Maignan e compagni affronteranno con ogni probabilità il Bologna, che domani sera al Dall’Ara ripartirà dal 3-0 ottenuto in casa dell’Empoli.
Reduce dalla bruciante sconfitta all’ultimo secondo proprio con il Bologna, costata il primato in solitaria in Serie A, l’Inter è partita forte e ha prodotto in particolare un’occasionissima sprecata da Lautaro al 33’. Chi sbaglia paga però, come si suol dire, e in effetti nel giro di 3’ il Milan è passato in vantaggio grazie a un colpo di testa di Jovic. Il secondo gol del serbo in apertura di ripresa ha scatenato la reazione di mister Inzaghi, che al 53’ ha effettuato ben quattro sostituzioni per provare a dare una scossa alla sua squadra. La reazione c’è stata, ma i campioni d’Italia non sono riusciti a trovare la via del gol e il sogno triplete è definitivamente sfumato dopo il 3-0 di Reijnders all’85’.