IL TEATRO
ALLA SCALA
il tempio della musica più famoso al mondo
I nomi che hanno reso grande la Scala
Inaugurato il 3 agosto 1778, il Nuovo Regio Ducal Teatro vide il passaggio di fascinose ballerine e compositori immortali «Mentre te ne stai aspettando quando si dia principio, ascolti un tuono, poi uno scoppio di fulmine, e questo è il segnale perché l’orchestra cominci l’ouverture; al momento s’alza il sipario, vedi un mare in burrasca, fulmini, piante sulla riva scosse dal vento, navi che vanno naufragando, e la sinfonia imita la pioggia, il vento, il muggito delle onde, le grida dei naufraganti; poco a poco si calma, si rasserena il cielo, scendono gli attori da una nave e il coro e alcune voci sole cominciano l’azione». Sono queste le parole che Pietro Verri scrive al fratello, a proposito dell’inaugurazione del Nuovo Regio Ducal Teatro, che apriva le sue porte al pubblico la sera del 3 agosto 1778. Il Verri ricorda bene il suo ingresso nell’edificio tanto chiaccherato, affacciato sulla centrale corsia del Giardino (l’attuale via Manzoni), affollata di carrozze da cui scendevano eleganti signore e distinti nobiluomini, smaniosi di entrare e occupare il proprio palco. Era di scena l’Europa riconosciuta del compositore Antonio Salieri, ma la maggior parte dei presenti non faceva altro che abbandonarsi a convenevoli, piuttosto che trincerarsi dietro le tendine dei palchi a scambiare pettegolezzi, sorseggiare un caffè, o giocare a carte, mentre in platea il fumo delle oltre mille lampade a olio faceva portare il fazzoletto alla bocca a più di una signora. La serata fu un successo, uno dei tanti che costelleranno la storia della Scala.
Il Teatro alla Scala prima e dopo il restauro
A volere la costruzione della Scala fu Maria Teresa d’Austria, in seguito all’incendio che distrusse il Regio Ducal Teatro nel 1776. L’aristocrazia milanese chiese a gran voce un nuovo luogo di intrattenimento, promettendo di contribuire alle spese in cambio della proprietà dei palchi. Detto fatto: i lavori furono commissionati a Giuseppe Piermarini, che scelse di realizzare una struttura in muratura e non in legno, proprio per arginare il problema degli incendi. L’architetto, però, aveva bisogno di tempo per concretizzare il suo progetto, e per non lasciare sprovvisti i milanesi di un teatro, in quattro e quattr’otto ne ricavò uno, destinato ad uso provvisorio, all’interno della chiesa di San Giovanni in Conca, battezzandolo con il nome di Teatro Interinale. Nel frattempo il Teatro Grande cominciava a prendere forma, là dove un tempo sorgeva la chiesetta di Santa Maria alla Scala. I vari impresari che si alternarono nella gestione del teatro fecero coincidere l’inizio della stagione invernale con il giorno di Santo Stefano, seguita dalla Stagione di Carnevale, che si concludeva con il veglione del Sabato grasso, quando il teatro assumeva i colori delle maschere che lo affollavano e che danzavano in platea, per poi proseguire con le stagioni Primavera, Estate e Autunno, che in genere duravano poco più di un mese. Molte delle opere messe in scena, durante l’intervallo ospitavano balli, di solito non collegati al tema dello spettacolo. La danza assunse poi sempre più importanza e nei primi decenni dell’Ottocento il pubblico si appassionava volentieri alle sempre più frequenti scaramucce tra ballerine. In ristoranti e caffè si discuteva della bravura di Fanny Cerrito, elogiando lo stile che mostrava nella danza di carattere, ma c’è chi era pronto a schierarsi con la sua rivale, Maria Taglioni, perfetta nella danza sulle punte. Tutti d’accordo invece su Fanny Elssler, la ballerina austriaca prontamente rispedita in patria alla vigilia delle Cinque Giornate! I compositori di talento si facevano in quattro per suonare alla Scala, mentre un certo Gioachino Rossini si muoveva con destrezza sul palco del teatro milanese, esordendo nel 1812 con um melodramma giocoso, dal titolo La pietra del paragone, diventato presto un tormentone. Conteso fra la Scala e Venezia, città che lo aveva scoperto, Rossini usciva lentamente di scena, cedendo la bacchetta a Gaetano Donizetti e Vincenzo Bellini, che non fecero rimpiagere le arie del Maestro. Poi arrivò Giuseppe Verdi, che trasferì i sentimenti risorgimentali in opere quali il Nabucco (1842) e I lombardi alla prima Crociata (1843). Verdi aveva grandi progetti, primo fra tutti rivedere la figura del compositore, anticipando l’idea di regia che vedrà protagonista Arturo Toscanini, ma l’ambiente culturale milanese non era ancora pronto a recepire innovazioni di più ampio respiro europeo, e il musicista si decise a lasciare la Scala. Per ventiquattro anni. Anni che non furono particolarmente felici per il teatro milanese, vuoi per la temporanea chiusura durante i moti del 1848, vuoi perché i repertori avevano bisogno di essere rinnovati. Quando il Maestro rimise piede alla Scala, nel 1869, fu un successo. Sui cartelloni che annunciavano una versione rinnovata de La forza del destino, si leggeva: «Messa in scena dell’Autore». Alcune frasi pronunciate da Verdi risuonavano nel teatro come una minaccia: «Verrò io stesso a Milano per fare le prove che crederò necessarie, e se non saranno com’io voglio e da artisti adattati alle parti, resta ben inteso che io me ne ritornerò a Genova. Io non scherzo né sono indulgente». Verso la fine dell’Ottocento, i milanesi scoprirono le opere di Wagner, grazie anche all’editore Giulio Ricordi, che inviò in avanscoperta a Bayreuth un giovane quanto promettente Giacomo Puccini, con il compito di studiare la messa in scena delle opere del grande compositore, scomparso nel 1883. La Walkiria, Sigfrido, Tristano e Isotta e Parsifal, decretarono la diffusione di una vera e propria febbre wagneriana. In seguito, il periodo Toscanini fu uno dei più burrascosi: il 14 aprile 1903, durante l’ultima replica del Ballo in maschera, circolò voce che il Maestro era stato colpito da un’emorragia e che il secondo atto dell’opera sarebbe stato diretto da un sostituto. In realtà, il celebre compositore si era indispettito per la richiesta di un bis da parte del pubblico al tenore Zenatello, e il giorno seguente s’imbarcò per l’Argentina, ripromettendosi di non mettere più piede alla Scala. Ci ritornò, invece, precisamente nel 1917, ottenendo l’incarico di direttore artistico, che gli permise di vietare i tanto odiati bis. «La perdita maggiore che qui abbia subito Milano, è stata la distruzione della sala del nostro massimo teatro lirico […]. Il grande salone, cui è legato il ricordo di tanti avvenimenti artistici e storici, non è che un’immensa voragine e la platea è sommersa da un alto cumulo di macerie». E’ ciò che i milanesi leggevano sulle pagine de Il Corriere della Sera del 17 agosto 1943, a seguito del bombardamento angloamericano che aveva colpito la Scala. A inaugurare il teatro ricostruito, neanche a dirlo, fu chiamato proprio Toscanini, che aveva abbandonato Milano con l’avvento del fascismo. Più recente il restauro della Scala, che ha consegnato ai milanesi un teatro profondamente rinnovato, inaugurato il 7 dicembre 2004 proprio con quell’Europa riconosciuta, diretta da Riccardo Muti, che aveva segnato gli esordi del «primo teatro al mondo, perché è quello che dà il massimo godimento musicale». Parola di Stendhal.dai siti:
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