Giorgio Gaber

GIORGIO GABER

GIORGIO GABER se ne è andato il primo giorno del 2003, è stato un grande cantautore, legato alla nostra città da sempre. Eccone alcuni esempi.

“La mia vita, una storia tutta milanese” (da una recensione del Teatro Manzoni)

Milano, che coincidenza.
Giorgio Gaber, quando parla della sua carriera di cantante e attore, ne ricollega ogni episodio alla città che l’ha visto nascere, in via Londonio, quartiere Sempione, ed esordire in teatro. Ma lo fa sempre raccontando una lunga vicenda di «coincidenze»: come se lui, il «Signor G», fosse frutto di un bizzarro incrocio tra Milano e il Fato: «E’ su una trama di circostanze tutte milanesi – dice – che si è sviluppata la mia carriera d’artista. Prova ne è che, bene o male, tutti i miei spettacoli, pur senza mai dare precise coordinate di spazio e di tempo, fanno riferimento a situazioni tipicamente metropolitane».
Nei bar del quartiere, punto d’incontro della città anni ’50, come dentro le cantine («un po’ New York, un po’ Parigi») dove si suonava il jazz, il «cantattore» milanese raccoglie idee, sensazioni, storie. E scrive le prime canzoni, debuttando in un locale dietro il Duomo, il Santa Tecla. «Guarda caso, questa è anche la città dell’industria discografica», precisa Gaber: una coincidenza che ha fatto sì che si dedicasse a tempo pieno alla musica leggera, mettendo da parte i libri.
E’ la nascente metropoli degli anni compresi tra ricostruzione e contestazione a far crescere nel giovane chansonnier di periferia la voglia di teatro. Le storie di bulli e impiegate, operai e ragazzi come lui, dagli spartiti potevano traslocare senza molta fatica sui copioni teatrali. Il primo ad accorgersene fu Paolo Grassi, vero papà del «Signor G» teatrale, il monologo canoro che Giorgio Gaber mise in scena al Piccolo vent’anni fa, e che poi divenne una sorta di suo alter ego professionale.
Ma a Gaber piace ancora indugiare sugli inizi. «Al teatro arrivai quando già erano nate “La ballata del Cerutti” e “Porta Romana”. Cominciai con Maria Monti, al Teatro Gerolamo. “Il Giorgio e la Maria” si intitolava il nostro spettacolo, col profumo di Milano tutto in quei due articoli davanti ai nomi. Con Maria scrivevo tutte le canzoni, storie di vita e di nebbia in una città che tanto amavamo».


Ora Gaber dice che Milano, quando gli accade di tornarci per lavoro, gli dà una stretta al cuore, fa fatica a viverci. Sono i rampanti anni ’80 che gli hanno fatto prendere la via dell’esilio, in Toscana: «Ma sono rimasto legato in tutto alla mia città, sento che qui ogni cosa mi appartiene, quasi fisicamente. Mi affascinano ancora la concretezza, la voglia di fare, l’atteggiamento liberale e libertario». Dove sono finiti però i bar della sua adolescenza, gli amici del biliardo, l’incontrarsi per caso e non solo per appuntamento, i personaggi da incorniciare in un ritornello? Bastano due note di una vecchia canzone del «Signor G» e il teatro si riempie di nostalgia.

CANZONE DELL’APPARTENENZA

L’appartenenza
non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé.
L’appartenenza
non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un’apparente aggregazione
l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé.
Uomini
uomini del mio passato
che avete la misura del dovere
e il senso collettivo dell’amore
io non pretendo di sembrarvi amico
mi piace immaginare
la forza di un culto così antico
e questa strada non sarebbe disperata
se in ogni uomo ci fosse un po’ della mia vita
ma piano piano il mio destino
è andare sempre più verso me stesso
e non trovar nessuno.
L’appartenenza
non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l’appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
L’appartenenza
è assai di più della salvezza personale
è la speranza di ogni uomo che sta male
e non gli basta esser civile
è quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa
che in sé travolge ogni egoismo personale
con un’aria più vitale che è davvero contagiosa.
Uomini
uomini del mio presente
non mi consola l’abitudine
a questa mia forzata solitudine
io non pretendo il mondo intero
vorrei soltanto avere un luogo un posto più sincero,
dove un bel giorno
magari molto presto
io finalmente possa dire: questo è il mio posto
dove rinasca non so come e quando
il senso di un sforzo collettivo per ritrovare il mondo.
L’appartenenza
non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un’apparente aggregazione
l’appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
L’appartenenza
è un’esigenza che si avverte a poco a poco
si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo
è quella forza che prepara al grande salto decisivo
che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti
in cui ti senti ancora vivo.
Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi.